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giovedì 19 gennaio 2012

PROVA TESTIMONIALE - Sentenza Cass. Sez. lavoro n. 5227 del 07.04.2001

Svolgimento del processo

Con atto 16 maggio 1995, la s.r.l. A. proponeva opposizione a decreto in data 22 marzo 1995 col quale il Pretore di Brescia le aveva ingiunto di pagare all'INPS L. 19.971.768, oltre accessori, per contributi e somme aggiuntive, in relazione a rapporto di lavoro a domicilio intercorso tra la società e la sig.ra B. B..

Con sentenza n. 970/96, il Pretore ha dichiarato l'insussistenza del credito ed ha revocato il decreto.

L'appello dell'INPS è stato accolto dal Tribunale - Sezione del Lavoro - della stessa sede con sentenza in data 30 ottobre/17 novembre 1997 con la quale ha rigettato l'opposizione a decreto ingiuntivo ed ha compensato le spese dei due gradi.

Per la cassazione di questa sentenza ricorre la società A.con quattro motivi.

L'INPS ha depositato procura speciale.

Motivi della decisione

Col primo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 1 L. 877/73 in relazione all'art. 360, n. 3 c.p.c..

Contraddittorietà della motivazione (art. 360, n. 5 c.p.c.) e sostiene che il solo elemento per la configurabilità del rapporto di lavoro subordinato a domicilio è rappresentato dalla subordinazione tecnica, e pertanto ininfluenti e contraddittorie erano le argomentazioni svolte preliminarmente dal Tribunale circa l'integrazione dell'attività della B. nel ciclo produttivo aziendale.

Col secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 244 e segg. c.p.c., la ricorrente sostiene che il Tribunale ha erroneamente ritenuto sussistente la prova della preventiva formulazione da parte della società di specifiche direttive circa l'esecuzione del lavoro vuoi in via presuntiva, vuoi sulla scorta di dichiarazioni della Bresciani verbalizzate dagli ispettori dell'INPS.

Il Tribunale aveva così violato le prescrizioni processuali sulle modalità di formazione e acquisizione della prova testimoniale e sulla valutazione della stessa.

Le dichiarazioni della B. (soggetto terzo rispetto alle parti in causa) per la parte storico - rappresentativa (istruzioni ricevute) era stata assunta al di fuori del processo in violazione delle norme processuali predette e dei principi sul contraddittorio, e per la parte valutativa (circa la ripetitività delle operazioni) esulava dalla possibilità di accertamento tramite prova testimoniale.

Col terzo motivo l'annullamento della sentenza impugnata è chiesto per violazione e falsa applicazione di norme di diritto - artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2727 e 2729 c.c. - Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione sui punti decisivi della controversia in relazione all'art. 360 c.p.c. n. 3 e 5 e si denuncia la contraddittorietà delle decisione anche in punto di direttive impartite.

Dovendosi prescindere, per le ragioni dette, dalle dichiarazioni rese dalla B. in sede ispettiva, per la parte residua il procedimento logico - induttivo seguito dal Tribunale appare errato per avere utilizzato una presunzione al fine di farne derivare ulteriori presunzioni su altre circostanze di fatto.

Il Tribunale, infatti, partendo dalla circostanza (ma si trattava in realtà di un giudizio di valore) della semplicità e ripetitività delle mansioni affidate alla Bresciani, ha poi ritenuto intuitivo che in sede di conferimento iniziale dell'incarico e di valutazione dell'idoneità della lavoratrice sarebbero state anche manifestate alla stessa le modalità del lavoro: quest'ultimo passaggio, secondo la società ricorrente, sarebbe del tutto arbitrario, tanto più che l'INPS avrebbe ammesso che l'attività demandata alla B. era stata svolta in piena autonomia.

L'inattendibilità del teste P. sarebbe stata affermata ingiustificatamente dal Tribunale, e del pari ingiustificata era poi l'omessa considerazione della testimonianza L., che aveva puntualmente confermato tutte le circostanze dedotte in modo articolato nel ricorso in opposizione.

Col quarto motivo, infine, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 1 L. 877/73 in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c.. Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione sui punti decisivi della controversia in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 e 5 e sostiene, subordinatamente al mancato accoglimento degli altri motivi, l'ininfluenza di semplici direttive impartite dalla società non essendosi discusso né in primo, né in secondo grado sui caratteri di tali direttive, sul punto cioé se le stesse avessero avuto le connotazioni proprie della norma di cui all'art. 1 cit., né al riguardo il Tribunale aveva minimamente argomentato, sebbene la questione fosse stata sollevata già avanti al Pretore.

Occorrevano cioé, per il particolare tipo si subordinazione, direttive in ordine a modalità di esecuzione, caratteristiche e requisiti del lavoro (manuale) da svolgere, direttive da non confondersi con la mere indicazione del tipo e delle caratteristiche del prodotto da realizzare, essendo cosa ben distinta il lavoro dal prodotto del lavoro.

L'erronea interpretazione fatta propria dal Tribunale dell'art. 1 della legge n. 877/73 cit. condurrebbe alla paradossale conclusione che ogni prestazione di durata eseguita da un commissionario presso il proprio domicilio a vantaggio dell'impresa preponente dovrebbe comunque ritenersi di natura subordinata, sì che la distinzione tra il lavoro a domicilio e l'appalto e quindi del lavoro subordinato e di quello proprio dell'imprenditore, sarebbe affidata al solo elemento esterno ed accidentale della presenza o meno di dipendenti, per tal via introducendosi una limitazione all'attività di impresa (necessità di avere dipendenti), estranea alla previsione dell'art. 41 della Costituzione e comunque comportante disparità di trattamento.

Il primo e il quarto motivo di ricorso, che per la stretta correlazione delle censure è opportuno esaminare congiuntamente, sono infondati.

In punto di interpretazione dell'art. 1 della legge 18 dicembre 1973, n. 887, come sostituito dall'art. 2 della legge 16 dicembre 1980, n. 858, questa Corte ha costantemente affermato che, per l'applicazione delle norme sul lavoro subordinato al rapporto di lavoro a domicilio, non occorre verificare la sussistenza delle connotazioni proprie del modello generale del rapporto di lavoro subordinato, essendo sufficiente accertare che il lavoratore esegua il lavoro nel proprio domicilio e in locale di cui abbia disponibilità; - che il lavoro sia eseguito dal lavoratore personalmente o anche con l'aiuto di accessorio di membri conviventi e a carico della propria famiglia (esclusi peraltro salariati o apprendisti); - che il lavoratore sia tenuto ad osservare le direttive dell'imprenditore circa le modalità di esecuzione, le caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere, nella esecuzione parziale, nel completamento o nella intera lavorazione di prodotti oggetto dell'attività del committente.

Il lavoro a domicilio realizza così una forma di decentramento produttivo; oggetto della prestazione, inoltre, non è un risultato (opus), ma il dispiego continuativo di energie lavorative (operae) all'esterno dell'azienda, tuttavia in funzione complementare o sostitutiva del lavoro eseguito all'interno di essa, di talché il vincolo della subordinazione si caratterizza come inserimento dell'attività del lavoratore, anche con mezzi ed attrezzature eventualmente propri, nel ciclo produttivo aziendale (cfr. Cass. 16 giugno 2000, n. 8221; 23 settembre 1998, n. 9516): la seconda delle sentenze ora citate ha anche posto in rilievo come le direttive imprenditoriali non necessariamente debbono essere specifiche e reiterate, essendo sufficiente, secondo le circostanze, che siano inizialmente impartite una volta per tutte, mentre i controlli possono anche limitarsi alla verifica della buona riuscita della lavorazione. È stato, peraltro, precisato (Cass. 4 febbraio 1993, n. 1361) che le prescrizioni datoriali non possano realizzarsi con la mera indicazione del tipo di lavorazione affidato.

Peraltro, deve rilevarsi che quanto più semplice è l'operazione affidata e tanto minore quindi è l'apporto della creatività o comunque della possibilità di variazione da parte del lavoratore, tanto più è ridotta la necessità di specificare concrete modalità di esecuzione del lavoro, senza che con ciò debba escludersi il carattere della subordinazione. Anche perché, nell'ipotesi ora considerata, assume vieppiù rilievo l'altro aspetto della dipendenza posto in luce della giurisprudenza sopra richiamata, quello cioé dell'inserimento del lavoratore nel ciclo produttivo aziendale, il che costituisce altra faccia della subordinazione tecnica.

Si tratta di considerazioni in diritto, volte alla identificazione degli essentialia negotii necessariamente presupposte rispetto all'esame in fatto della concreta fattispecie e come tali correttamente prese in esame implicitamente o esplicitamente dal giudice di merito, e che comunque tanto più si impongono, contrariamente a quanto dedotto nel quarto motivo, al giudice di legittimità.

Rileva la Corte come il giudice di appello non si sia discostato dagli esposti principi di diritto.

Il Tribunale ha, infatti, premesso alla ricostruzione in fatto della fattispecie che nel rapporto di lavoro a domicilio di cui all'art. 1 della legge 18 dicembre 1973, n. 877, la subordinazione si atteggia in modo diverso rispetto al regime ordinario e si concretizza nell'inserimento dell'attività del prestatore nel ciclo produttivo aziendale del quale diviene elemento integrativo, senza che sia necessaria la continuità sistematica della prestazione ed essendo sufficiente che il lavoratore si attenga a direttive impartitegli anche soltanto inizialmente, una volta per tutte, in relazione a lavorazioni normalmente semplici e ripetitive (subordinazione tecnica).

Non si ravvisano poi i vizi di motivazione denunciati nei due motivi in esame (attinenti peraltro alla identificazione della fattispecie legale astratta e quindi a elementi di diritto in ordine ai quali questa Corte, riscontrata l'esattezza della decisione espressa nel dispositivo, sarebbe legittimata ad integrare o a correggere, ai sensi dell'art. 384 c.p.c. eventuali vizi di motivazione nei quali fosse incorso il giudice di appello). Infatti, come risulta dalla esposizione che precede, il Tribunale si è ampiamente diffuso nell'argomentare in ordine alla sussistenza in concreto di direttive diverse e ulteriori rispetto alla mera indicazione dell'oggetto della prestazione. Non appaiono, poi, pertinenti le deduzioni della ricorrente in ordine alla distinzione tra lavoro a domicilio e appalto in relazione, in particolare, alla presenza di dipendenti dell'esecutore dell'opera, in quanto nella fattispecie sottoposta a giudizio non si è mai fatta questione di dipendenti della Bresciani.

Anche il secondo e i terzo motivi di ricorso - che pure meritano esame congiunto in quanto attinenti alla individuazione in concreto, da parte del giudice di appello, delle direttive cui la Bresciani sarebbe stata assoggettata e alla valutazione da parte dello stesso giudice delle prove relative - sono infondati.

Ha giudicato il Tribunale che dalle stesse dichiarazioni rilasciate dalla B. in sede ispettiva risultavano istruzioni impartite da chi consegnava il lavoro da fare, nonché la ripetitività delle operazioni e tale accertamento non era contrastato dalle deposizioni dei testi P. e L. (il primo, peraltro, inattendibile per avere dichiarato di essere operaio della società, tacendo però di esserne anche consigliere delegato). I testi infatti si erano limitati a confermare (il che era riconosciuto dalla stessa società) che la B., già esperta nella stiratura delle calze, offrì lei stessa la sua prestazione alla società, dal che doveva intuirsi che al momento dell'accordo vennero convenute le modalità di esecuzione del lavoro che interessavano alla società; questa, dopo la prima commessa, giudicata soddisfacente l'opera (evidentemente per l'osservanza delle modalità volute), dette seguito al rapporto e rinnovò gli ordini mese per mese, con le modalità di esecuzione precedenti; per la semplicità e ripetitività delle lavorazioni e in presenza della particolare professionalità della lavoratrice, non si resero necessarie ulteriori istruzioni (come riferito dai testi) se non sporadicamente (così dichiarò la lavoratrice). Essendo pacifico il potere della committente di verificare l'esattezza della prestazione, ne conseguiva che era sufficientemente provata la cosiddetta subordinazione tecnica.

Non era comunque emersa, secondo il tribunale, la prova contraria a tale subordinazione, che doveva ritenersi necessaria nel quadro della riduzione dell'area del lavoro autonomo a vantaggio di quella del lavoro subordinato a domicilio, talché i casi di dubbia qualificazione giuridica dovevano essere risolti nel senso della sussistenza di quest'ultimo rapporto.

Si era trattato, inoltre, di lavoro complementare o sostitutivo di quello interno all'azienda della quale completava il ciclo produttivo, svolto senza alcuna organizzazione aziendale propria della lavoratrice che prestava la propria attività in via esclusiva per una sola committente, con materiale della stessa fornitole, e quindi senza alcuna effettiva autonomia di mercato. Irrilevante era l'iscrizione della Bresciani nel registro delle imprese e l'emissione da parte sua di fatture.

Ritiene la Corte, con riferimento alle diffuse argomentazioni (contenute soprattutto nel terzo motivo) sulla valutazione del materiale probatorio da parte del giudice di merito, che, secondo un orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico - giuridico posto a base delle decisione (cfr. Cass. 27 dicembre 1997, n. 13045; cfr. anche Cass. 22 ottobre 1993, n. 10503; 14 aprile 1994, n. 3498; 18 marzo 1995, n. 3205; 2 ottobre 1994, n. 8006; 21 ottobre 1994, n. 8653).

Per quanto, più specificatamente, concerne le critiche circa l'utilizzazione da parte del Tribunale delle dichiarazioni rese agli ispettori della lavoratrice, la Corte aderisce all'insegnamento delle Sezioni unite (sentenza 3 febbraio 1996, n. 916) secondo cui tali verbali, da un lato, fanno fede fino a querela di falso, ai sensi dell'art. 2700 c.civ., solo relativamente alla loro provenienza dal sottoscrittore, alle dichiarazioni a lui rese ed agli altri fatti che egli attesti come avvenuti in sua presenza o da lui compiuti; d'altro canto, peraltro, per quanto riguarda le altre circostanze di fatto che egli segnali di avere accertato nel corso dell'inchiesta per averle apprese da terzi o in seguito ad altre indagini, i verbali, per la loro natura di atto pubblico, hanno un'attendibilità che può essere infirmata solo da una specifica prova contraria. Essi possono, quindi, costituire, in sede di opposizione al provvedimento monitorio, in relazione al modo con il quale sono stati redatti, al loro contenuto, alle indagini verbalizzate, prova sufficiente delle circostanze sulle quali è basata la pretesa dell'ente previdenziale, in relazione anche al comportamento inerte dell'opponente, in relazione alla risultanze del verbale, valutabile anche in forza del criterio di cui all'art. 116 c.p.c. (Cass. 10 gennaio 1981, n. 229).

É appena il caso di sottolineare che la società ben avrebbe è potuto esercitare il proprio diritto di difesa, ove lo avesse ritenuto opportuno, anche adducendo la B. quale teste da assumere direttamente dal giudice.

Circa la distinzione tra elementi valutativi e dati storici contenuti nella dichiarazione della lavoratrice in sede ispettiva e la ritenuta indebita valorizzazione da parte del giudice di merito anche dei primi, rileva la Corte che seppure i giudizi non possono formare oggetto di prova essendo vietato demandare ai testi la valutazione dei fatti, è anche vero che laddove si tratti di apprezzamenti di assoluta immediatezza, praticamente inscindibili dalla percezione dello stesso fatto storico, essi ben possono concorrere al convincimento del giudice. La regola secondo cui la prova testimoniale deve avere ad oggetto fatti e non apprezzamenti o giudizi viene, infatti, intesa, dalla giurisprudenza di questa Corte, nel senso che essa non possa esprimere anche il convincimento che del fatto e delle sue modalità sia derivato al teste per la sua stessa percezione (Cass. 25 ottobre 1972, n. 3249; 21 luglio 1971, n. 2393).

Sulla base di tali premesse, le caratteristiche estremamente semplici oppure complesse di determinate attività lavorative rispondono a nozioni comuni e sono di immediata percettibilità per qualsiasi soggetto, sicché il risultato della prova testimoniale ben può essere assunto a fondamento del proprio convincimento dal giudice il quale, analogamente, può valorizzare ai sensi degli artt. 115 e 116 c.p.c. quanto nello stesso senso riferito da un soggetto assunto in sede ispettiva.

Peraltro, come risulta dall'esposizione che precede, il Tribunale non si è sottratto alla valutazione delle due prove testimoniali richiamate dalla ricorrente, solo che, nell'esercizio del potere di valutazione istituzionalmente affidato in via esclusiva al giudice di merito, non le ha ritenute decisive ai fini di una pronuncia di segno diverso.

Infondate sono poi le argomentazioni circa il ricorso da parte del giudice di merito a presunzioni tratte da altre presunzioni in ordine alla sussistenza di direttive impartite dalla società alla lavoratrice per l'esecuzione del lavoro in quanto, secondo il ragionamento del Tribunale, non era ravvisabile un reale contrasto tra quanto dichiarato dai testi e le dichiarazioni rese dalla lavoratrice in sede ispettiva, giacché quelle deposizioni dovevano pur essere considerate nel quadro non solo, e non tanto, di valutazione logiche e di acquisizioni di comune esperienza, ma soprattutto, in relazione alla semplicità delle operazioni affidate alla Bresciani, caratteristica della quale, come sopra posto in rilievo, derivava necessariamente una correlata essenzialità delle istruzioni da impartire che non necessariamente però avrebbe coinciso con la mera, generica indicazione dell'oggetto della prestazione.

Circostanza quest'ultima che, oltretutto, non può dirsi risultasse dalle dichiarazioni della B. utilizzate da Tribunale, e la società ricorrente ben si guarda dal prendere in considerazione nei particolari, trascrivendole, quelle dichiarazioni, sia pure per confutarne il contenuto.

Del pari, la ricorrente non trascrive e comunque non richiama con la necessaria compiutezza l'atto contenente pretese ammissioni dell'Avvocatura dell'INPS in ordine alla asserita autonomia della lavoratrice, compiutezza tanto più necessaria in quanto l'Istituto ha impostato la propria difesa complessiva proprio sulla sussistenza della subordinazione nel senso preteso dalla normativa sul lavoro a domicilio e ha richiamato in proposito la ricordata giurisprudenza di legittimità.

Conclusivamente, assorbito ogni altro profilo di censura, il ricorso deve essere rigettato.

Ricorrono giusti motivi per l'integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Così deciso in Roma, addì 10 gennaio 2001.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 7 APR. 2001.