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giovedì 26 gennaio 2012

LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO - SECONDO LICENZIAMENTO LEGITTIMO - AMMISSIBILITA' - CASS. SEZ. LAVORO SENT. N. 6055 DEL 06.03.2008

Svolgimento del processo

Con ricorso al Pretore del lavoro di Vallo della Lucania P.F. impugnava per mancanza di giusta causa o giustificato motivo il licenziamento irrogatogli con due lettere a lui recapitate il 3.8.98 ed il 26.10.98 dalla M. E. srl, esercente un centro di medicina fisica e di riabilitazione, presso il quale aveva espletato mansioni di impiegato amministrativo, chiedendo contestualmente la reintegrazione nel posto di lavoro oltre il risarcimento del danno. Costituitasi in giudizio, la società convenuta chiedeva il rigetto della domanda e proponeva riconvenzionale per il pagamento di beni aziendali utilizzati da controparte ed il rimborso di spese sostenute dall'azienda nell'esclusivo interesse della stessa.

Accolta dal Tribunale la domanda con riferimento al licenziamento intimato con la prima missiva, con esclusione peraltro della richiesta reintegrazione, e dichiarata parte convenuta decaduta dalla riconvenzionale, proponeva appello la società convenuta ribadendo che il P. era un dirigente, cui non trovavano applicazione le garanzie dello statuto dei lavoratori, e che erroneamente il primo giudice non aveva ammesso parte datrice alla prova di tale qualità; altrettanto erroneamente detto giudice non aveva portato in compensazione la somma reclamata in via riconvenzionale a mezzo non di domanda specifica, ma di eccezione. Proponeva appello incidentale il P. per la mancata reintegra.

La Corte di appello con sentenza 18.6.03 - 5.10.06 rigettava entrambe le impugnazioni.

Correttamente il primo giudice aveva rilevato. che nella specie erano configurabili due diversi licenziamenti, intimati rispettivamente con lettere del 30.7.98 e del 10.11.98 e che l'oggetto del giudizio era limitato alla legittimità del primo, nei confronti del quale era stata solamente contestata la legittimità. Non escludendo che il datore potesse licenziare due volte in tempi diversi lo stesso lavoratore per diversi motivi, procedendo al secondo recesso senza revocare il primo, la Corte di merito riteneva che correttamente era stato concesso solo il risarcimento del danno per il (primo) licenziamento illegittimo e non anche la reintegra, atteso che il rapporto si era comunque definitivamente risolto con il secondo licenziamento. Correttamente, inoltre, era stato escluso che il dipendente avesse svolto funzioni dirigenziali, dato che tutte le risultanze processuali deponevano nel senso che egli aveva ricoperto mansioni di impiegato di settimo livello con funzioni direttive. Il licenziamento intimato con la lettera 30.7.98 avrebbe dovuto essere sorretto da giusta causa o da giustificato motivo; tuttavia, mancando la prova della giustificazione indicata (ovvero il collegamento tra la dedotta situazione aziendale ed il recesso) e della inutilizzabilità del dipendente in mansioni equivalenti, esso era da ritenere ingiustificato. Quanto alla richiesta subordinata del datore, riteneva impossibile la conversione della domanda riconvenzionale in eccezione di compensazione, atteso che la compensazione stessa era chiesta con somme non portate in ricorso.

Avverso questa sentenza propone ricorso il P., cui risponde con controricorso e ricorso incidentale la società M. E.

Motivi della decisione

Preliminarmente i due ricorsi vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c..

Con il primo motivo il ricorrente principale ( P.) deduce carenza di motivazione e violazione dell'art. 1324 c.c., nonchè della L. n. 604 del 1966, artt. 2 e 3, e della L. n. 300 del 1970, art. 18. della L. n. 300, art. 18, comma 1, invece, qualifica come annullamento l'invalidazione del licenziamento disposto in mancanza di giusta causa o giustificato motivo, di modo che la sentenza di annullamento ha efficacia ex fune eliminando gli effetti del negozio annullabile. Nel caso di specie, dunque, il licenziamento (pur annullabile) è un negozio che ha prodotto l'effetto di far cessare il rapporto di lavoro dalla data di ricezione da parte del lavoratore della lettera di licenziamento fino all'intervento della sentenza di annullamento di primo grado e, pertanto, - essendo detta ricezione avvenuta il 3.8.98 ed essendo la sentenza intervenuta il 31.1.01 - il secondo licenziamento intimato il 10.11.98 avrebbe dovuto essere considerato privo di effetto.

Con il secondo motivo sono dedotti i vizi di violazione di legge e di nullità della sentenza per ultrapetizione (con riferimento all'art. 2697 c.c., e artt. 99, 112 c.p.c., art. 414 c.p.c., comma 5, art. 416 c.p.c., comma 3, artt. 420, 421, 434 c.p.c., art. 437 c.p.c., comma 2, nonchè di carenza di motivazione. Deduce il ricorrente che con l'appello incidentale aveva contestato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva ritenuto che il datore con la lettera del 10.11.98 avesse intimato un secondo licenziamento, sostenendo che dal tenore letterale della lettera in questione non potesse arrivarsi a questa conclusione. A questo motivo la sentenza della Corte di merito non aveva dato alcuna risposta, limitandosi sul punto a richiamare la opinione espressa dal primo giudice che il datore avesse voluto irrogare un secondo licenziamento, incorrendo così nell'errore di ritenere per ammessa tale circostanza, andando contro lo stesso tenore letterale del ricorso introduttivo. Pertanto, ne risulterebbe violato il principio stesso della domanda e quello della corrispondenza tra chiesto e pronunziato.

La ricorrente incidentale con il primo motivo deduce violazione dell'art. 24 Cost., artt. 115 e 116 c.p.c., falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., L. n. 604 del 1966, artt. 1, 2, 3, 8, 10, e L. n. 300 del 1970, art. 18, nonchè carenza di motivazione. La Corte di merito, rigettando l'appello principale, ha anche immotivatamente rigettato il motivo concernente la mancata ammissione della prova per testi circa la natura dirigenziale del rapporto di lavoro del P..

Il secondo motivo del ricorso incidentale lamenta violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato, violazione degli artt.. 1241, 1242 c.c., art. 1243 c.c., comma 1, art. 1246 c.c., comma 1, e degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè carenza di motivazione. Viene contestato il rigetto dell'eccezione riconvenzionale (come tale qualificata in corso di causa l'originaria domanda riconvenzionale) di compensazione della somma di L. 24.700.000 e la non ammissione della prova per testi richiesta al riguardo, ritenendosi incongrua la motivazione offerta.

E' infondato il primo motivo di ricorso principale, con cui parte ricorrente intende affermare, sull'onda di alcune sentenze di questa Corte (sentenze 18.5.05 n. 10394 e 4.4.01 n. 5092), il principio che il licenziamento intimato nell'area della stabilità reale per mancanza di giusta causa o giustificato motivo costituisce negozio risolutivo del rapporto, che produce i suoi effetti tipici fino a quando non venga eventualmente annullato dal giudice. Ne deriverebbe che un secondo licenziamento, ove irrogato prima dell'annullamento, sarebbe privo di effetto, in quanto interverrebbe su un rapporto non più esistente. Il giudice che annulla il licenziamento, pertanto, (che sia o meno intervenuto un secondo licenziamento) dovrebbe ripristinare in ogni caso il rapporto disponendo la reintegrazione, essendo venuto meno il recesso ostativo alla sua continuazione.

Tale impostazione, ad avviso del Collegio si limita a considerare solamente l'aspetto degli effetti caducatori della pronunzia di illegittimità del licenziamento per carenza di giusta causa o giustificato motivo, enfatizzando il dato testuale della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 1, (nel testo introdotto dalla L. n. 108 del 1990), a proposito della qualificazione di azione di annullamento dell'impugnazione del recesso per giusta causa o giustificato motivo ("il giudice, con la sentenza con cui... annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo..."), senza tenere conto del significato complessivo della norma. La norma, infatti, prevede che nel caso di annullamento del recesso disposto dal giudice per mancanza di giusta causa o giustificato motivo, scattino a favore del lavoratore una serie di conseguenze favorevoli per il lavoratore (reintegrazione nel posto di lavoro, pagamento di un'indennità pari alla retribuzione di fatto che sarebbe maturata tra il licenziamento e la reintegrazione, versamento dei contributi previdenziali per il periodo tra licenziamento e reintegrazione) che postulano che il rapporto medio tempore sia continuato, seppure solamente de ture. In altre parole, non può negarsi che l'annullamento abbia natura costitutiva e che gli effetti della pronunzia abbiano effetto ex tunc; tuttavia, esso interviene in una situazione in cui il rapporto non è stato interrotto dal licenziamento (si veda in tal senso Corte cost. 14.1.86 n. 7).

Incisivamente è stato affermato che il licenziamento illegittimo non è idoneo ad estinguere il rapporto al momento in cui è stato intimato "determinando unicamente una sospensione della prestazione dedotta nel sinallagma a causa del rifiuto del datore di ricevere la prestazione stessa, sino a quando, a seguito del provvedimento di reintegrazione del giudice, non venga ripristinata la situazione materiale antecedente al licenziamento" (Cass. 4.11.00 n. 14426). Può affermarsi, dunque, che il licenziamento illegittimo, intimato a lavoratori per i quali è applicabile la tutela cosiddetta reale, determina solo un'interruzione di fatto del rapporto di lavoro, ma non incide sulla sua continuità, assicurandone la copertura retributiva e previdenziale, di modo che "il recesso illegittimo non può valere ad escludere la debenza, dei contributi previdenziali sulle retribuzioni dovute al lavoratore reintegrato" (Cass. 1.3.05 n. 4261).

La continuità e la permanenza del rapporto giustifica l'irrogazione di un secondo licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, ove basato su una nuova e diversa ragione giustificatrice, dal quale solamente, in mancanza di tempestiva impugnazione, deriverà l'effetto estintivo del rapporto.

E' esattamente questa la situazione creatasi nel caso di specie, ove, secondo gli accertamenti dei giudici di merito, ad un primo licenziamento irrogato per giustificato motivo (peraltro risultato non provato), ha fatto seguito un secondo motivato con addebiti di carattere personale. Risultando impugnato solo il primo licenziamento, ma non anche il secondo, deve ritenersi che correttamente la Corte di merito abbia ritenuto che il giudice, annullando il licenziamento per mancanza di giusta causa o giustificato motivo, dovesse limitarsi alla condanna dei danni subiti dal lavoratore nel periodo corrente tra il primo ed il secondo licenziamento, senza disporre la reintegrazione, atteso che il rapporto era ormai venuto meno a causa del secondo licenziamento non impugnato.

Il motivo, pertanto, deve essere rigettato.

Passando all'esame del secondo mezzo di impugnazione del ricorrente principale deve rilevarsi la incompatibilità del motivo in questione con l'altro appena esaminato. Con il secondo motivo, infatti, si contesta l'insufficiente risposta (ai limiti dell'omesso esame) data dalla Corte di merito al motivo di appello incidentale concernente la denunzia dell'erronea interpretazione data dal primo giudice alla lettera 10.11.98 ed alla sua qualificazione come lettera di (secondo) licenziamento. La tesi posta alla base di questo motivo (che una corretta interpretazione della missiva avrebbe comportato la conclusione che non fosse stato irrogato un secondo licenziamento) si pone in totale contrasto con quella sostenuta nel primo motivo appena esaminato (e cioè che la missiva in questione, pur rappresentando la volontà del datore di irrogare un secondo licenziamento, dovesse essere ritenuta giuridicamente inidonea a perseguire lo scopo di far cessare il rapporto di lavoro). Tale insanabile contrasto comporta l'inammissibilità del motivo.

Quanto al ricorso incidentale, deve rigettarsi il primo motivo concernente la ammissione della prova per testi circa la natura dirigenziale del rapporto di lavoro instaurato tra la soc. Medical Erre e il P.. La non ammissione di questa prova avrebbe lasciato indimostrata la tesi di parte convenuta che quest'ultimo, a decorrere dall'1.5.97, era stato nominato dirigente, e che il suo rapporto non era pertanto regolato dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, e L. 20 maggio 1970, n. 300.

Non essendo dedotte (nonostante l'intestazione del mezzo di impugnazione) specifiche violazioni di legge sostanziali o processuali in punto di ammissione (o non ammissione) della prova richiesta, il motivo deve essere esaminato sotto il pur denunziato profilo della omessa motivazione. Al riguardo deve rilevarsi che il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte perchè la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, all'uopo, valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (v. fra molte Cass. s.u. 11.6.98 n. 5802 e Cass. 22.7.04 n. 13747).

Nel caso di specie la condizione che legittima un controllo di tal genere non si è verificata in ragione della congruità dell'analisi compiuta dal giudice di merito. La Corte territoriale, infatti, per accertare la natura impiegatizia e non dirigenziale del rapporto di lavoro in questione ha esaminato una pluralità di elementi documentali, quali la documentazione versata in atti (buste paga ed estratto del libro matricola, dai quali il P. risultava inquadrato come impiegato di 7^ livello), i modelli di pagamento dei contributi previdenziali (indirizzati all'INPS e non all'INPDAI o al Fondo Mario Negri). Argomentando, inoltre, dalla tesi difensiva sostenuta dalla stessa convenuta e dalle dichiarazioni rese da alcuni dei testi ammessi, il giudice è giunto alla conclusione che i poteri del P. avessero anche di fatto connotazione impiegatizia, essendo ogni sua decisione rimessa al consenso dell'amministratore unico della società. Ha, infine, preso in esame la particolare composizione della retribuzione corrisposta all'attore, rilevando come essa fosse strutturata secondo il tipico schema impiegatizio e come essa superasse l'importo contrattuale solo per effetto di un assegno ad personam, senza incorrere nella libera pattuizione del compenso.

L'accertamento in punto di natura del rapporto si presenta logicamente e congruamente motivato, sulla base di materiale probatorio liberamente individuato e esaurientemente valutato, di modo che il giudice ha fatto buon governo del potere di selezionare i mezzi probatori posti a sua disposizione. Deve, pertanto, ritenersi che la pronunzia sia indenne dal vizio denunziato.

Deve essere rigettato anche il secondo motivo di ricorso incidentale, con il quale si lamenta il rigetto dell'eccezione di compensazione della somma di L. 24.700.000 e la non ammissione della prova per testi richiesta per dar prova del proprio credito.

Dalla esposizione dell'iter processuale del giudice di appello risulta che la domanda riconvenzionale proposta in primo grado dalla soc. M. E. aveva ad oggetto il pagamento della somma di L. 24.700.000, da compensarsi quanto a L. 14.423.000 per retribuzioni ancora dovute per i mesi maggio e giugno 1998 e da corrispondere in moneta per il rimanente. Questa domanda, tuttavia, fu dichiarata inammissibile in quanto proposta in violazione dell'art. 418, comma 1, (ovvero senza la richiesta di fissazione di nuova udienza), di modo che la parte proponente, odierna ricorrente incidentale, ne chiese - facendo successivamente della richiesta oggetto di motivo di appello - l'esame a titolo di "eccezione riconvenzionale di compensazione" (quantomeno parziale) del credito vantato da controparte.

E' opportuno premettere che la qualificazione della richiesta che la società convenuta ha proposto dopo la declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale ha un contenuto diverso a seconda che si qualifichi come eccezione riconvenzionale o come richiesta di compensazione. E', infatti, noto che la parte che propone eccezione riconvenzionale intende opporre alla controparte un proprio diritto, idoneo a neutralizzare la domanda avversa (v. Cass. 30.10.06 n. 23341 e 4.7.06 n. 15271), mentre la parte che eccepisce la compensazione fa riferimento all'istituto regolato in senso tecnico-giuridico nell'art. 1241 c.c. e ss., con la relativa disciplina comprendente l'art. 1246 c.c., sui limiti della compensabilità dei crediti, che postula l'autonomia dei rapporti cui si riferiscono le contrapposte ragioni di credito delle parti, di modo che esso non trova applicazione ove non sussista la predetta autonomia di rapporti. Qualora i rispettivi crediti trovino origine nell'ambito di un'unica relazione negoziale si è in presenza di una compensazione in senso improprio delle reciproche ragioni di credito, di modo che le parti possono sollecitare in corso di causa l'accertamento contabile del saldo finale delle contrapposte partite di dare-avere derivanti dall'unico rapporto (Cass. 15.10.04 n. 20324, 29.3.04 n. 6214 e 25.11.02 n. 16561). In questo ultimo caso la valutazione delle reciproche pretese importerebbe soltanto un semplice accertamento contabile di dare ed avere, cui il giudice potrebbe procedere senza che sia necessaria l'eccezione di parte o la proposizione di domanda riconvenzionale.

Nel caso di specie la compensazione impropria viene richiesta con chiarezza dalla ricorrente incidentale solo con il motivo di cassazione ora in esame. Nel giudizio di merito, invece, la stessa aveva chiesto che, come riportato testualmente nel motivo di ricorso in esame, "le deduzioni ed i fatti posti a favore della stessa ovvero della domanda riconvenzionale inammissibile venissero considerati quale eccezione riconvenzionale nei limiti delle somme eventualmente a riconoscersi a favore del ricorrente". Nel giudizio di appello più genericamente aveva chiesto, come sopra evidenziato, che la domanda riconvenzionale dovesse essere considerata quale "eccezione riconvenzionale di compensazione".

Di fronte a tale alternanza di richieste, ritiene il Collegio che la questione denunziata con il motivo ora in esame sia stata sollevata solo nel giudizio di legittimità il che comporta l'inammissibilità del motivo, in quanto, come noto, il ricorso per cassazione deve investire questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase del merito nè rilevabili d'ufficio.

In conclusione, entrambi i ricorsi debbono essere rigettati. La reciproca soccombenza comporta la compensazione delle spese tra le parti.

P.Q.M.

La Corte riunisce i separati ricorsi e li rigetta, compensando tra le parti le spese di giudizio.

Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2008.

Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2008