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lunedì 30 gennaio 2012

APPALTO E DIVIETO DI INTERPOSIZIONE DI MANODOPERA - CASS., SEZ. UNITE, SENT. N. 2517 DEL 21.03.1997

Svolgimento del processo

Con ricorsi, separati ma poi riuniti, del 28 e 31 marzo 1990 al Pretore di Firenze, [Omissis] esponevano di aver lavorato alle dipendenze della S.p.A. B.W. e figli, con assunzioni avvenute in tempi diversi a partire dal 1974 e di essere stati tutti licenziati il 31 marzo 1989. La società aveva assunto dall'allora Azienda delle Ferrovie dello Stato (poi trasformata in ente pubblico economico con L. 17 maggio 1985 n. 210 e poi ancora in società per azioni con delibera CIPE 12 agosto 1992, in G.U. 28 agosto 1992, emessa in base al D.L. 5 dicembre 1991 n. 386, conv. in L. 29 gennaio 1992 n. 35) un appalto di mere prestazioni di lavoro, consistenti nell'espletamento di attività esecutive presso l'ufficio controllo viaggiatori e bagagli, in violazione del divieto posto dall'art. 1, primo comma, L. 23 ottobre 1960 n. 1369, onde i ricorrenti chiedevano accertarsi la costituzione fin dall'origine di un rapporto di lavoro subordinato con l'Ente ferrovie dello Stato, ai sensi del citato art. 1, ultimo comma, con l'iscrizione nei ruoli paga e anzianità, la reintegrazione nel posto di lavoro ed il pagamento delle differenze retributive.

Costituitisi i convenuti S.p.A. B.W.e figli nonché l'Ente ferrovie dello Stato, il Pretore accoglieva la domanda con sentenza del 6 aprile 1993, dichiarando essersi costituiti i rapporti di lavoro con l'Ente in date diverse, ma mai anteriori al 5 febbraio 1988 (rapporti tuttora in corso) e condannando il datore di lavoro a pagare le differenze retributive calcolate dal consulente tecnico fino al 31 dicembre 1992, oltre a quelle maturate successivamente. In particolare il Pretore escludeva che il datore di lavoro, convenuto in giudizio, avesse mai eccepito essere stati occupati i lavoratori - attori, in tempi diversi ma tutti compresi nel periodo considerato, in altre imprese e, perciò, dover essere calcolati i loro crediti sottraendo quanto percepito grazie a queste altre occupazioni.

Entrambi i soccombenti proponevano appello in via principale, mentre i lavoratori assunti dalla società Bucalossi prima del 5 febbraio 1988 proponevano appello incidentale.

In particolare l'appellante società Ferrovie dello Stato sosteneva che il Pretore avrebbe dovuto detrarre dai crediti dei lavoratori quanto da loro percepito grazie ad altre occupazioni, semplicemente perché ciò corrispondeva al contenuto della loro domanda giudiziale, senza alcun bisogno di eccezione della parte convenuta.

Tutte le impugnazioni venivano rigettate con sentenza 23 ottobre 1993 n. 417 dal Tribunale, il quale anzitutto escludeva il difetto di capacità processuale della società delle Ferrovie dello Stato per mancanza di organo di rappresentanza sostanziale. Nel merito il Tribunale osservava doversi ravvisare nel caso di specie un appalto di mere prestazioni di lavoro, vietato dall'art. 1 L. n. 1369 del 1960, considerando la natura meramente esecutiva dell'attività svolta dai lavoratori quasi tutti i giorni nei locali dell'Ente appaltante e sotto la direzione di suoi dipendenti.

L'appaltatore, del resto, non aveva assunto alcun rischio economico e si era limitato a fornire solo una parte delle attrezzature nonché un "responsabile d'impianto". Indicative, secondo il Tribunale, erano anche le leggi n. 880 del 1971 e n. 197 del 1975, che avevano immesso nei ruoli dell'Azienda ferroviaria il personale già adibito alle stesse mansioni.

Che poi i lavoratori ricorrenti non avessero tempestivamente impugnato il licenziamento intimato il 31 marzo 1989 dalla Soc.B., e perciò avessero manifestato in proposito una tacita acquiescenza, costitutiva, ad avviso del Tribunale, oggetto di un'eccezione in senso stretto, inammissibile perché non tempestivamente sollevata dalle convenute nell'atto di costituzione nel giudizio di primo grado.

Circa la determinazione quantitativa del credito dei lavoratori verso la datrice di lavoro, l'Amministrazione delle ferrovie dello Stato, interponente, i giudici d'appello rilevavano che essa faceva parte del thema decidendum poiché aveva formato oggetto della pretesa formulata con gli atti introduttivi del giudizio e rinnovata davanti al Pretore nell'udienza del 6 luglio 1991.

Era infine vero che in tale determinazione il consulente tecnico non aveva tenuto conto delle somme percepite dai lavoratori, per attività estranee ai rapporti lavorativi in questione e svolte in tempi diversi dopo il licenziamento suddetto (il cosiddetto aliunde perceptum): tuttavia esse erano state sottratte in sede esecutiva e sul risultato della sottrazione non v'era contestazione, onde doveva ritenersi venuto meno l'interesse ad impugnare sul punto (in sostanza il Tribunale emetteva sul punto una pronuncia di cessazione della materia del contendere).

Quanto all'appello incidentale, erravano gli appellanti nel pretendere che il rapporto di lavoro con le Ferrovie dello Stato decorresse fin da quando queste, anche prima del 5 febbraio 1988, avevano effettivamente utilizzato le prestazioni lavorative formalmente rese alla società B.. Infatti dalla sentenza 22 aprile 1992 n. 191 della Corte costituzionale risultava che solo con l'inizio del regime privatistico dei rapporti di lavoro con l'Ente ferrovie dello Stato si era resa applicabile la legge n. 1369 del 1960: inizio risalente appunto al 5 febbraio 1988.

Contro questa sentenza proponeva ricorso per revocazione la S.p.A. Ferrovie dello Stato, assumendo essere incorso il Tribunale in errori di fatto (art. 395, n. 4, cod. proc. civ.) e precisamente nel non aver rilevato che i rapporti di lavoro in questione erano cessati il 31 marzo 1989 per non essere stati impugnati i licenziamenti allora intimati, nel non aver notato che la domanda dei lavoratori era limitata alla differenza tra quanto loro dovuto e quanto già percepito ed infine nell'aver ritenuto, contrariamente al vero, che l'importo corrispondente a quanto percepito dai lavoratori per servizio prestato, dopo i detti licenziamenti, presso altre aziende (cosiddetto aliunde perceptum) fosse stato già sottratto a quanto loro ancora dovuto, dal consulente tecnico e in sede esecutiva.

Costiuitisi i lavoratori, con sentenza 8 maggio 1994 n. 162 il Tribunale, dichiarata cessata la materia del contendere nei confronti di alcuni di loro per transazione, revocava la sentenza impugnata, e disponeva un prosieguo istruttorio per la determinazione quantitativa dei diversi crediti.

Quanto al primo motivo di revocazione, il Tribunale ne affermava la non fondatezza giacché l'invocato licenziamento dei diversi lavoratori era stato intimato, nel marzo 1989, da persona non legittimata, ossia dal datore di lavoro interposto, apparente, e non da quello interponente, vero ai sensi dell'art. 1 L. n. 1369 del 1960; esso perciò doveva considerarsi nullo.

Quanto al secondo motivo, l'asserito errore di interpretazione della domanda formulata dai lavoratori non rientrava fra i mezzi di revocazione previsti nell'art. 395 cod. proc. civ.

Il terzo motivo di revocazione veniva ritenuto fondato dal Tribunale, il quale osservava di aver affermato per mera svista materiale, nella sentenza n. 417/1993, che il consulente tecnico avesse detratto dal credito di ciascun lavoratore l'aliunde perceptum, mentre era pacifico, al contrario, che nessuna detrazione era stata effettuata.

Passando a decidere nuovamente il merito della causa su questo punto, ai sensi dell'art. 402, primo comma, cod. proc. civ., il collegio d'appello riteneva che la domanda formulata dai lavoratori in primo grado fosse limitata alla differenza tra il loro credito complessivo verso le Ferrovie dello Stato e l'aliunde perceptum. Limitazione che del resto era stata implicitamente confermata nel corso del processo, poiché in uno degli atti difensivi era ammesso che alcuni di loro erano stati assunti e retribuiti da un datore diverso dalle Ferrovie dello Stato.

Era perciò necessario che il consulente tecnico procedesse ad un nuovo calcolo dei relativi crediti.

Contro la sentenza n. 417 del 1993 ricorrono per cassazione in via principale la S.p.A. Ferrovie dello Stato (n. 1029 del 1994) ed in via incidentale la L. e altri dieci litisconsorti (n. 2749 del 1994). Tutti gli intimati dalla ricorrente controricorrono. I ricorrenti incidentali hanno depositato memoria.

Contro la sentenza n. 162 del 1994 ricorrono in via principale ancora la Lorenzi ed altri tredici (n. 3422 del 1995) e in via incidentale A.B. ed altri tredici (n. 3687 del 1995) nonché le Ferrovie dello Stato con due atti identici (nn. 5290 e 5291 del 1995) e contenenti anche i controricorsi.

Nell'udienza del 31 marzo 1995 la Sezione Lavoro constava il contrasto di giurisprudenza di cui si dirà nella parte motiva e trasmetteva gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite ai sensi dell'art. 374, secondo comma, cod. proc. civ. Il Primo Presidente disponeva in tal senso.

Prima dell'udienza del 14 marzo 1996 queste Sezioni Unite, investite dei soli ricorso nn. 1029 e 2974 del 1994, rinviavano la trattazione della causa onde render possibile la trattazione congiunta con i ricorsi nn. 3422, 3687, 5290 e 5291 del 1995.

Tutte le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

1. Tutti i ricorsi vanno riuniti: il n. 1029/1994 al n. 2794/1994 in quanto proposti contro la medesima sentenza, n. 417 del 1993, ai sensi dell'art. 335 cod. proc. civ.; il n. 3422/1995 ai nn. 3687, 5290 e 5291/1995 per la stessa ragione, ossia perché proposti tutti contro la sentenza n. 162 del 1994. I due gruppi poi, in quanto concernenti una sentenza parzialmente revocata e la sentenza di revoca, ossia le due sentenze testé dette, vengono riuniti perché proposti contro pronunce bensì diverse, ma che s'integrano reciprocamente in quanto emesse nello stesso processo. In questo senso, ed in applicazione estensiva dell'art. 335 cit., questa Corte si è espressa nei casi di impugnazione contro le decisioni sull'an e sul quantum del credito (Cass. 9 novembre 1985 n. 5498), oppure contro le sentenze non definitiva e definitiva (Cass. 10 maggio 1983 n. 3202) e, più specificamente, nei ricorsi per cassazione contro la sentenza d'appello e contro quella revocatoria (Cass. 5 aprile 1977 n. 1297, 6 novembre 1982 n. 5863, 7 gennaio 1984 n. 110).

2. Per il buon ordine espositivo vengono esaminati con precedenza i ricorsi contro la sentenza n. 417 del 1993, nella parte in cui essa non è stata sottoposta a revocazione.

In via preliminare va dichiarata inammissibile la censura contenuta nelle memorie depositate dalla Lorenzi e dal Baroncelli e concernenti l'asserita nullità del ricorso in appello proposto dalle Ferrovie dello Stato, per essere stata la società in giudizio attraverso un organo incompetente, ossia un organo, quale il capo ufficio degli affari legali di Firenze, privo della rappresentanza ex art. 75 cod. proc. civ. e quindi anche privo del potere di conferire la procura alle liti ex art. 83 dello stesso codice.

Circa la competenza del detto organo si è espresso in senso positivo il Tribunale (pagg. 11 e 12 della sentenza n. 417/93) e sul punto, in difetto di ricorso per cassazione, si è formata la cosa giudicata, che non è impedita dalle memorie depositate ex art. 378 cod. proc. civ., poiché queste hanno la sola funzione di illustrare i motivi di ricorso già proposti ma non possono contenere né nuovi motivi né nuovi profili d'impugnazione (Cass. 11 novembre 1986 n. 6567, 24 aprile 1987 n. 4065).

3. Col primo motivo del ricorso principale (n. 1029 del 1994) si lamenta la violazione degli artt. 1 e 3 L. 23 ottobre 1960 n. 1369 e insufficiente motivazione. La ricorrente S.p.A. Ferrovie dello Stato nota anzitutto che, quando l'allora Azienda autonoma delle ferrovie, oppure l'Ente autonomo, conclusero i contratti d'appalto con la società Bucalossi e questa assunse i lavoratori, non esisteva alcun elemento che potesse far ravvisare un appalto di mere prestazioni di lavoro, chiamato anche interposizione nell'assunzione di manodopera vietato dal citato art. 1. Infatti era la detta società che organizzava il lavoro ed i mezzi di produzione, che dirigeva il personale e che aveva promesso alla detta Amministrazione un risultato finale e non il semplice uso di forze lavorative, attraverso la conclusione di un vero e lecito contratto d'appalto di servizi. Sostiene la ricorrente che la liceità della situazione giuridica così determinata nel momento della costituzione del rapporto fra impresa privata e pubblica amministrazione bastava a far escludere l'applicabilità dell'art. 1 citato, senza che rilevassero i successivi modi di svolgimento dei rapporti di lavoro costituiti in esecuzione del contratto d'appalto.

Aggiunge tuttavia la ricorrente che, anche a volere aver riguardo a detto svolgimento, errò il Tribunale nel ritenere che la società B. avesse fornito all'Amministrazione delle ferrovie soltanto manodopera. Al contrario, trattavasi di vera e propria impresa societaria, dotata di sufficienti mezzi strumentali e finanziari ed esercente un'attività produttiva di servizi con assunzione di rischio economico.

Altro errore del Tribunale, secondo la ricorrente, è dato dall'omessa verifica di applicabilità dell'art. 3 L. n. 1369 del 1960, disciplinante l'ipotesi di appalto di opere o di servizi eseguito all'interno dell'azienda appaltante.

Il motivo non è fondato.

Esso sottopone anzitutto alla Corte la questione se l'art. 1, primo comma, L. n. 1369 del 1960, che vieta l'appalto di semplice manodopera, dettando poi nel quinto comma le conseguenze civilistiche dell'inosservanza del divieto, abbia riguardo soltanto alla fase in cui, stipulato il contratto fra appaltante e appaltatore, quest'ultimo assuma la manodopera, oppure se esso si applichi anche quando, dopo la costituzione del rapporto di lavoro, ossia nel corso del suo svolgimento, il datore, assumendo formalmente o tacitamente un appalto di semplice manodopera, destini il lavoratore ad altra impresa, effettiva utilizzatrice delle prestazioni lavorative.

Le disposizioni di legge che vengono in considerazione sono le seguenti.

Art. 1 L. n. 1369 del 1960 (Divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell'impiego di manodopera negli appalti di opere e di servizi): "E' vietato all'imprenditore di affittare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperativa, l'esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall'appaltatore o dall'intermediario, qualunque sia la natura dell'opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono" (primo comma).

"E' considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o subappalto, anche per esecuzione di opere o di servizi, ove l'appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante, quand'anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all'appaltante" (terzo comma).

"Le disposizioni dei precedenti commi si applicano altresì alle aziende dello Stato ed agli enti pubblici, anche se gestiti in forma autonoma, salvo quanto disposto dal successivo art. 8" (quarto comma).

I prestatori di lavoro, occupati in violazione dei divieti posti dal presente articolo, sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell'imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni" (quinto comma).

Art. 3 della stessa legge: "Gli imprenditori che appaltano opere e servizi, compresi i lavori di facchinaggio, di pulizia e di manutenzione ordinaria degli impianti, da eseguirsi nell'interno delle aziende con organizzazione e gestione propria dell'appaltatore, solo tenuti in solido con quest'ultimo a corrispondere ai lavoratori da esso dipendenti un trattamento minimo inderogabile retributivo e ad assicurare un trattamento normativo, non inferiore a quelli spettanti ai lavoratori da loro dipendenti" (primo comma).

"Gli imprenditori sono altresì tenuti in solido con l'appaltatore, relativamente ai lavoratori da questo dipendenti, all'adempimento di tutti gli obblighi derivanti dalle leggi di previdenza e assistenza" (terzo comma).

Art. 8 della stessa legge: "Con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta congiunta dei Ministri per le finanze, per i trasporti, per le poste e le telecomunicazioni e per il lavoro e la previdenza sociale, entro 6 mesi dall'entrata in vigore della presente legge, saranno emanate le norme per la disciplina dell'impiego di manodopera negli appalti concessi dalle Amministrazioni autonome delle ferrovie dello Stato, dei monopoli di Stato e delle poste e telecomunicazioni, in conformità con le disposizioni di cui ai precedenti articoli, tenendo conto delle esigenze tecniche della Amministrazioni stesse e salvaguardando gli interessi del personale dipendente dalle imprese fornitrici di manodopera" (primo comma).

Le norme relative agli appalti concessi dall'Amministrazione delle ferrovie dello Stato vennero emanate con d.P.R. 22 novembre 1961 n. 1192, pubblicato in G.U. 25 novembre 1961 n. 293, del quale si dirà appresso.

La questione attualmente sottoposta alla Corte venne risolta da una meno recente giurisprudenza nel senso che l'ambito di applicazione della legge n. 1369 "non si estende ad episodi successivi alla costituzione del rapporto fra l'appaltatore, così impropriamente chiamato, ed il lavoratore, ma incide soltanto sul momento genetico dello stesso, in quanto la funzione della legge va ravvisata nella eliminazione della interposizione fraudolenta, attraverso la sostituzione del rapporto costituito mediante un negozio (vietato) ... con un rapporto immediato fra l'imprenditore ed i lavoratori effettivamente da lui utilizzati". Ne conseguiva che, escluso un accordo simulatorio necessariamente anteriore alla costituzione del rapporto di lavoro o, quanto meno, coincidente con essa, non era prospettabile un'operatività della legge nel successivo momento funzionale del rapporto stesso, "relativamente a situazioni traenti origine da fatti giuridici necessariamente diversi da quelli costitutivi del rapporto già in atto" (così Cass. 5 febbraio 1983 n. 990).

Questo orientamento veniva confermato, sostanzialmente senza nuovi argomenti, da Cass. 24 aprile 1985 n. 2708 e 21 gennaio 1986 n. 375.

Ad esso si contrappone la giurisprudenza secondo cui sia l'elemento letterale dell'art. 1, primo comma, della legge n. 1369, sia l'intenzione del legislatore impongono di interpretare la disposizione nel senso che il divieto di interposizione ivi contenuto oggettivamente, ossia indipendentemente dall'accertamento dell'esistenza di un accordo fraudolento fra il datore di lavoro interponente a quello interposto (Cass. 28 ottobre 1985 n. 5301, 23 giugno 1987 n. 5494, 4 luglio 1996 n. 6092).

Da questo principio deriva la possibilità di ravvisare la violazione del divieto legislativo non soltanto quando l'assunzione del lavoratore da parte dell'interposto sia contemporanea alla sua destinazione effettiva alle dipendenze dell'interponente, ma altresì quando la seconda sia successiva alla prima (Cass. 9 agosto 1991 n. 8706), come nel caso in cui il lavoratore distaccato presso altra impresa non renda più le proprie prestazioni al datore di lavoro distaccante ma si ponga al servizio esclusivo dell'imprenditore di destinazione, pur continuando ad apparire alle dipendenze del primo, che assume così la figura dell'interposto ai sensi dell'art. 1 L. n. 1369 (Cass. 13 aprile 1989 n. 1751), oppure nel caso di trasferimento graduale di un'azienda (Cass. 11 giugno 1992 n. 7213).

Ritengono ora queste Sezioni Unite che il contrasto di giurisprudenza debba essere composto attraverso l'adesione a questo secondo orientamento.

Infatti, oltre che dalla lettera delle disposizioni sopra riportate, il fenomeno giustificativo della legge emerge chiaramente dai lavori preparatori. Per quanto riguarda in particolare l'art. 1, che vieta l'interposizione nella costituzione dei rapporti di lavoro, attuata in qualsiasi forma, il legislatore ha inteso contrastare il fenomeno nel quale un'impresa principale (comunemente detta interponente, o appaltante) si giova di una persona - dipendente, impresa autonoma o cooperativa - la quale assume lavoratori apparentemente alle proprie dipendenze, destinandoli poi in realtà ad esplicare le proprie mansioni nell'azienda gestita dall'impresa principale, sotto la direzione tecnica e disciplinare del titolare di quest'ultima. "Sistema che concreta un'anomala forma di appalto di mano d'opera e reca gravissimo pregiudizio ai prestatori di lavoro in quanto le imprese "fornitrici" pagano ai lavoratori appaltati retribuzioni inferiori a quelle stabilite negli accordi sindacali e violano quasi sempre gli obblighi previsti dalle leggi di assistenza e previdenza" (Relazione alla proposta di legge n. 130, presentata alla Camera dei deputati il 22 luglio 1958, III legislatura).

Quand'anche non si verifichino i fenomeni, di per sé illeciti, delle retribuzioni inferiori al minimo o dell'evasione degli obblighi previdenziali, la norma è posta per evitare che l'imprenditore (interponente) si sottragga alle conseguenze dell'assunzione diretta, ricorrendo all'espediente di farli assumere da un soggetto interposto (Relazione delle Commissioni permanenti giustizia e lavoro sulle proposte di legge del 22 luglio 1958, nn. 130-A e 134-A, Atti Camera, III legislatura, pag. 3). Che poi il fenomeno debba necessariamente essere preceduto da un contratto di pseudo-appalto, stipulato da interponente e interposto, è escluso dall'espressione "in qualsiasi forma", contenuta nel primo comma dell'art. 1, e dal fatto che il titolo della legge, originariamente formulato come "protezione dei lavoratori contro alcune forme anomale d'appalto" fu mutato in quello attuale, in cui si parla più generalmente di "divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro", significando attraverso l'endiadi la volontà della legge, che è quella di contrastare il fenomeno di cui sopra senza limitazioni imposte da una rigida fattispecie legale (cfr. la Relazione delle dette commissioni sul testo unificato delle proposte 130-134 C, trasmessa al Senato della Repubblica il 18 luglio 1960, pag. 2), ed altresì generalizzando il divieto d'interposizione nel lavoro a cottimo già posto dall'art. 2117 cod. civ. Né ha trovato attuazione il proposito, espresso dal legislatore in sede di delega con l'art. 1 L. 6 dicembre 1993 n. 499, di "rendere più precisa e rigorosa l'identificazione del mero appalto di mano d'opera".

"Trattasi di normativa dettata ad esclusiva protezione dei lavoratori, tanto che, quand'anche essi siano consapevoli o addirittura partecipi del cosiddetto contratto d'appalto, nessuna conseguenza negativa, neppure di carattere sanzionatorio (vedi art. 2), è prevista a loro carico" (così già Cass. 18 ottobre 1983 n. 6093).

Tutto ciò posto, è evidente come la conseguenza prevista dall'art. 1, terzo comma, vale a dire l'instaurazione del rapporto di lavoro con l'imprenditore che abbia effettivamente utilizzato l'attività dei prestatori, non debba conseguire ad alcun accordo fraudolento fra quegli e l'interposto, bastando anche una successione di fatti oggettivamente idonei a realizzare la situazione contrastata dal legislatore, e come essa non escluda neppure il precedente svolgimento di un rapporto di lavoro con l'attuale interposto, in tutto conforme a legge.

E' sufficiente, per realizzare la fattispecie legale, una situazione effettiva, di lavoro prestato a favore e sotto il potere direttivo del datore interponente, destinata a prevalere sulla situazione formale, costituita dal contratto stipulato con l'assuntore, restando così esclusa ogni rilevanza di un intento fraudolento delle parti. La più recente dottrina pone in luce la portata puramente oggettiva del divieto, ossia la non necessità di un intento negoziale delle parti avente ad oggetto l'interposizione di persona fra imprenditore e prestatore di lavoro, ed afferma la ravvisabilità di una rapporto, fra assuntore e lavoratore, contra legem, negando quello in fraudem legis.

Ne consegue che l'assunzione del lavoratore da parte dell'interposto può avvenire anche in un momento notevolmente anteriore a quello dell'effettiva utilizzazione da parte dell'imprenditore interponente. Ed è significativo che la stessa dottrina si ponga la questione, pur estranea alla presente controversia, se l'interponente, in quanto si surroghi nella posizione del datore di lavoro, debba considerarsi tale, retroattivamente, dal momento dell'assunzione del lavoratore ovvero dal momento, successivo, della sua effettiva utilizzazione.

La diversa soluzione della questione qui in esame, vale a dire quella sostenuta dalla meno recente giurisprudenza, non può essere seguita poiché lascia fuori della tutela apprestata dalla legge n. 1369 molte situazioni in cui il prestatore di lavoro svolge la propria attività effettivamente presso un certo imprenditore, ricevendo, senza alcuna causa giustificativa, un trattamento retributivo, normativo e previdenziale inferiore a quello dei colleghi investiti di eguali mansioni, sol perché suo datore di lavoro apparente risulta un'altra persona. E tutto ciò in contrasto non solo con la ratio legis sopra illustrata ma eventualmente anche con le garanzie di cui agli artt. 35, primo comma, 36, primo comma e 38, secondo comma, della Costituzione.

E' vero che oggi paiono affermarsi tesi secondo le quali l'attuale rigidità della normativa sui rapporti di lavoro, fondata sul modello della subordinazione dotata di stabilità e a tempo pieno, ostacolerebbe lo sviluppo dell'occupazione, onde dovrebbero essere favorite forme di fornitura di lavoro temporaneo attraverso apposite organizzazioni intermediatrici, con conseguente riduzione dell'area di efficacia della legge n. 1369 qui in esame. Ma queste tesi potrebbero portare a modifiche legislative, corredate delle necessarie cautele a favore dei prestatori (vedi in proposito il disegno di legge n. 2764, presentato alla Camera dei deputati il 26 giugno 1995 e contenente "norme in materia del mercato del lavoro e flessibilità"), mentre non sono sufficienti ad orientare l'interpretazione delle norme vigenti.

In conclusione si deve affermare che l'ipotesi di interposizione nelle prestazioni di lavoro, vietata dall'art. 1 L. n. 1369 del 1960, può realizzarsi anche in una fase successiva alla costituzione del rapporto di lavoro, in relazione a fatti sopravvenuti.

4. Da questa conclusione discende altresì che l'effetto di detta interposizione, previsto nel quinto comma dell'art. 1 ult. cit., può verificarsi anche nel corso del rapporto di lavoro, quale conseguenza di una sopravvenienza normativa.

Ciò vale per la fattispecie qui in esame, caratterizzata dalla circostanza che la sopravvenienza, capace di incidere sulla situazione originariamente non sanzionata, consistette in un cambiamento non già dei fatti bensì del complesso normativo che li regolava.

Originariamente il riportato art. 8, primo comma, della legge n. 1369 del 1960 esonerava l'Amministrazione delle ferrovie dello Stato, come s'é visto, dall'osservanza diretta dell'art. 1, prevedendo future norme in materia, da emanare con decreto presidenziale. Questo fu emesso l'anno successivo (d.P.R. 22 novembre 1961 n. 1192, contenente norme per la disciplina dell'impiego della mano d'opera negli appalti concessi dalle Amministrazioni autonome delle ferrovie dello Stato, dei monopoli di Stato e delle poste e telecomunicazioni) e nell'art. 1, primo comma, confermò il divieto di cui all'art. 1 della legge n. 1369. La sanzione contenuta nel quinto comma di questo art. 1 non venne però riaffermata dal decreto, il quale, così, non espresse la volontà che i prestatori assunti in violazione del divieto venissero considerati alle dipendenze dell'Amministrazione pubblica.

Tale difetto di previsione venne interpretato in un primo tempo da queste Sezioni Unite nel senso che i detti prestatori di lavoro dovessero essere considerati come pubblici dipendenti (Cass. 4 dicembre 1991 n. 13074, resa in una questione di riparto della giurisdizione e con riferimento all'Azienda dei monopoli di Stato).

successivamente però la Corte costituzionale, con sentenza 22 aprile 1992 n. 191, si espresse nel senso dell'esclusione della sanzione prevista nell'art. 1 cit.; esclusione risultante sia dall'art. 4 d.P.R. cit., che stabilisce una specifica tutela per il personale non dipendente ma utilizzato attualmente dall'Amministrazione, sia dalle successive leggi, che hanno immesso nei ruoli del personale ferroviario i dipendenti delle imprese appaltatrici di servizi poi assunti in gestione diretta dall'Azienda autonoma (L. 29 ottobre 1971 n. 880 e 6 giugno 1975 n. 197). Né, ha aggiunto la Corte costituzionale, detta esclusione era estranea al potere regolamentare del Governo, investito dall'art. 8 L. n. 1369 del potere di dettare norme per gli appalti "in conformità" con le disposizioni della legge stessa, attraverso una discrezionalità più ampia di quella, solo tecnica, spettante nel caso di semplici regolamenti d'esecuzione.

Da questa interpretazione, a cui le Sezioni Unite non hanno ragione di non attenersi, anche in mancanza di contrarie indicazioni della ricorrente, discende che, fintanto che il decreto presidenziale è rimasto in vigore, vale a dire fino al 5 febbraio 1988 - data in cui, scaduto il regime transitorio di cui all'art. 21 L. 17 maggio 1985 n. 210, è subentrato il regime privatistico dei rapporti di lavoro dell'Ente ferrovie dello Stato - l'effetto legale previsto nel più volte citrato quinto comma dell'art. 8 L. n. 1369 non è stato operante. Ma si è potuto applicare, per le ragioni sopra dette, nel periodo successivo al 5 febbraio 1988 e per quei casi in cui i lavoratori risultassero formalmente dipendenti di imprese appaltatrici di mere prestazioni di lavoro, rendendo però ed effettivamente la loro attività direttamente a vantaggio dell'Ente.

Come si è già detto, la ricorrente sostiene anche, col primo motivo d'impugnazione, di avere stipulato un valido contratto d'appalto con la società privata, la quale aveva promesso un risultato economico finale e non la semplice fornitura di manodopera; tanto bastava, a suo avviso, ad escludere la realizzazione dell'ipotesi formulata nell'art. 1, primo comma, L. n. 1369.

Ma si è visto già come, per la realizzazione di tale ipotesi, non sia necessario un accordo fraudolento tra imprenditore interponente e soggetto interposto. Ne consegue che la conclusione di un contratto formalmente valido e l'adozione di espressioni letterali idonee ad evocare un lecito appalto non basti ad escludere la costituzione di una successiva ed effettiva situazione di inosservanza del divieto legale in questione.

5. Asserisce ancora la ricorrente, argomentando a contrario dal terzo comma dell'art. 1 cit., che la realizzazione dell'ipotesi in questione era esclusa dall'avere la società provata impiegato capitali ed attrezzature proprie e dall'avere essa assunto un rischio economico. Ciò bastava anche a dimostrare, secondo la sua tesi, che nella specie poteva tutt'al più ritenersi concluso un contratto d'appalto di servizi da eseguirsi nell'interno dell'azienda delle ferrovie, con organizzazione e gestione proprie dell'appaltatore, e doveva perciò applicarsi l'art. 3, primo comma, della legge n. 1369, invece dell'art. 1, quinto comma.

Anche questa parte della censura è priva di fondamento. La differenza fra l'ipotesi formulata nel primo comma dell'art. 3, sopra riportato, e quella dell'art. 1 sta in ciò, che la prima concerne un vero contratto d'appalto, avente ad oggetto opere o servizi da eseguire nell'interno dell'azienda dell'appaltante, con un'organizzazione ed una gestione propria dell'appaltatore, mentre la seconda, come risulta espressamente dal terzo comma dell'art. 1, esclude la detta organizzazione. La differenza degli effetti è indicata dallo stesso primo comma dell'art. 3, che stabilisce la responsabilità solidale, verso i lavoratori, dell'appaltatore e dell'appaltante, e dal quinto comma dell'art. 1, che costituisce il rapporto di parasubordinazione tra lavoratori e imprenditore interponente.

Nel primo caso, ripetesi, ma non nel secondo, l'assuntore dei lavoratori è provvisto di autonomia organizzativa e gestionale, col rischio economico insito in ogni attività d'impresa.

Quanto alla fattispecie concreta, il Tribunale ha accertato in fatto, con motivazione coerente ed esauriente, che la società privata, pur qualificata come appaltatrice, aveva destinato i lavoratori assunti a prestazioni da eseguire nell'interno dei locali dell'Amministrazione ferroviaria, sotto la direzione di organi di questa, con mansioni esecutive di natura burocratica, svolte con mobili e arredi della stessa Amministrazione e senza la cosiddetta appaltatrice assumesse alcun rischio economico.

Esattamente, pertanto, il Tribunale ha ritenuto la realizzazione dell'ipotesi di intermediazione di manodopera, formulata dall'art. 1 cit., ed ha negato la ravvisabilità di un contratto d'appalto, anche nella forma prevista dall'art. 3 cit.

Che, poi, alla società privata appartenesse una parte delle attrezzature è circostanza che non infirma la decisione del Tribunale. L'art. 1 cit., non esclude infatti che l'interposto sia imprenditore, il quale attua nondimeno l'interposizione vietata se, limitatamente ad un tipo di lavori o servizi, fornisca - come hanno accertato nella specie i giudici di merito - mere prestazioni di lavoro senza assunzione di alcun rischio (Cass. 20 aprile 1985 n. 2643, 23 giugno 1987 n. 5494, 9 agosto 1991 n. 8706), ed anche con apporto del tutto marginale di macchine e attrezzature (Cass. 1° febbraio 1993 n. 1191, 31 dicembre 1993 n. 13015, 26 febbraio 1994 n. 1979, 11 maggio 1994 n. 4585).

6. Col secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 189 e 227 cod. proc. civ. nonché contraddittoria motivazione, affermando che la sentenza impugnata errò nel considerare i rapporti di lavoro controversi come perseguiti anche oltre il 31 marzo 1989, giorno in cui la società Bucalossi intimò il licenziamento ai lavoratori. Questi infatti mostrarono di accettarlo, astenendosi da qualsiasi impugnazione. La ricorrente precisa di non ritenere che i lavoratori siano decaduti dal potere di impugnare il licenziamento per inutile decorso del termine di cui all'art. 6 L. 15 luglio 1966 n. 604, ed asserisce che essi addirittura aderirono tacitamente alla volontà risolutoria manifestata dalla datrice di lavoro, ossia prestarono acquiescenza al licenziamento.

Neppure questo motivo è fondato.

A parte l'improprio riferimento della ricorrente agli artt. 189 e 277 del codice di rito e la necessità, derivante dall'art. 366 n. 4 dello stesso codice, di ritenere che sostanzialmente la norma di riferimento del motivo d'impugnazione sia nell'art. 2118 cod. civ., occorre osservare che, per effetto dell'utilizzazione delle prestazioni lavorative da parte dell'imprenditore interponente, il più volte citato quinto comma dell'art. 1 L. n. 1369 del 1960 sostituisce lo stesso interponente all'interposto nel rapporto di lavoro. Il momento d'inizio di detta utilizzazione coincide così con quello di costituzione del rapporto e segna la contemporanea fine del rapporto tra lavoratore e soggetto interposto. Non è possibile ritenere la coesistenza, nel medesimo tempo, di due rapporti di lavoro subordinato, con l'interponente e con l'interposto; coesistenza che assoggetterebbe il prestatore, ai sensi dell'art. 2094 cod. civ., al potere di direzione di due soggetti distinti, il cui eventuale esercizio contraddittorio costringerebbe di necessità la persona assoggettata a versare nell'illecito. E' la contraddizione logica, in altre parole, a non consentire la detta coesistenza (diverso è il caso in cui nello stesso periodo il lavoratore sia titolare di rapporti diversi, da attuare in ore diverse o comunque con modalità che li rendano conciliabili: Cass. 9 aprile 1977 n. 1361, 16 dicembre 1983 n. 7438).

IL nuovo rapporto - da intendersi di regola a tempo indeterminato, ossia non limitato al periodo di effettiva utilizzazione delle prestazioni del lavoratore (Cass. 4 febbraio 1988 n. 1144, 20 aprile 1990 n. 3289, 19 maggio 1990 n. 4551) - si sostituisce così a quello precedente, oppure solo apparente e in realtà mai esistito, con l'assuntore - interposto: ne consegue necessariamente che questi rimane privo di poteri propri del datore di lavoro e in particolare del potere di licenziare. Per la stessa ragione le dimissioni del lavoratore sono valide solo se presentate al datore di lavoro interponente (Cass. 27 maggio 1996 n. 4862).

E' ben vero che in dottrina si discute circa la configurabilità di una residua responsabilità dell'interposto per il caso di inadempimento degli obblighi gravanti sull'interponente nei confronti del prestatore, ma questa responsabilità (posto che sia ravvisabile, qui non interessa) non potrebbe comunque bastare a far ritenere la piena titolarità del rapporto di lavoro. è indicativo che la dottrina più diffusa in argomento configuri una responsabilità derivante non dal contratto di lavoro ma da comportamento illecito tenuto dall'interposto e produttivo di danni per il lavoratore.

In conclusione il licenziamento, intimato da persona non titolare del rapporto di lavoro (nel caso di specie: la società privata interposta) è inesistente giuridicamente e non impedisce al lavoratore di far valere in qualsiasi tempo, salva la prescrizione estintiva, il rapporto costituitosi ex lege con l'interponente.

Resta in disparte, beninteso, l'ipotesi che qui non ricorre, in cui l'interposto debba considerarsi, oltreché assuntore, lavoratore dipendente dall'interponente e investito del potere di licenziare.

7. Benché non separato graficamente, anche un terzo motivo è contenuto nel ricorso principale, n. 1029 del 1994, in cui si lamenta che il Tribunale non avrebbe potuto condannare l'ente ferrovie dello stato a pagare, a titolo retributivo, determinate somme ai lavoratori, sia perché costoro, agendo in giudizio, avevano chiesto solo una condanna generica, sia perché comunque dalle retribuzioni calcolate dal consulente tecnico avrebbero dovuto essere detratte le somme percepite da altri lavoratori dopo la cessazione di fatto dei precedenti rapporti, avvenuta il 31 marzo 1989 (cosiddetta detrazione dell'aliunde perceptum).

Per la parte concernente il potere di liquidazione delle somme dovute il motivo è infondato, giacché la domanda in tal senso risulta chiaramente dagli atti introduttivi dei giudizi, tanto della Lorenzi ed altri quanto del Baroncelli ed altri.

La parte della sentenza n. 417 del 1993 concernente l'aliunde perceptum ha formato oggetto della revocazione pronunciata con la sentenza n. 162 del 1994. La censura ad essa relativa e formulata col ricorso n. 1029 del 1994 verrà considerata dopo aver esaminato i ricorsi relativi a questa seconda sentenza (infra, par. 10).

8. Con l'unico motivo del ricorso incidentale proposto contro la sent. 417/1993 (ric. n. 2794 del 1994) è denunziata la violazione dell'art. 1 L. n. 1069 cit.

Secondo i ricorrenti, data la giusta premessa secondo cui l'effetto legale, previsto nel quinto comma dell'art. 1 cit. e consistente nella costituzione del rapporto di lavoro con l'imprenditore interponente, non poté determinarsi prima dell'instaurazione del regime privatistico nei rapporti con l'Amministrazione delle ferrovie, l'esatta conseguenza avrebbe dovuto essere di fissare la costituzione del detto rapporto al giorno di entrata in vigore della legge n. 210 del 1985, con la quale l'Azienda autonoma venne trasformata in ente pubblico economico, e non al successivo 5 febbraio 1988, ossia all'entrata in vigore della nuova contrattazione collettiva. A sostegno della loro tesi i ricorrenti invocano la giurisprudenza di queste Sezioni Unite, secondo cui le controversie concernenti rapporti di lavoro in corso all'entrata in vigore della legge ult. cit. appartengono alla giurisdizione ordinaria.

Il motivo non è fondato.

Come s'e detto a proposito del primo motivo del ricorso principale, non vi sono ragioni per dissentire dalla sentenza della Corte costituzionale n. 191 del 1992, che ha inciso proprio sull'attuale controversia civile: anzi, la giurisprudenza costituzionale che parla di vincolo (simile all'efficacia della regiudicata) delle pronunce di rigetto sul giudizio a quo (Corte cost. nn. 140 del 1973 e 197 del 1983) induce tanto più ad attenervisi. Come s'é detto, essa fissa l'operatività dell'art. 1, quinto comma, L. 1369/1960 nei confronti dell'ente ferrovie dello Stato alla data (5 febbraio 1988) in cui cessò il regime speciale degli appalti di servizi dettato nel d.P.R. n. 1192 del 1961. Né vale obiettare che già in precedenza i rapporti d'impiego erano conosciuti dalla giurisdizione ordinaria, non potendosi confondere le questioni di riparto della giurisdizione con quelle riguardanti la disciplina contenutistica del rapporto di lavoro, pur se possano darsi rapporti di influenza reciproca.

In conclusione, nessuno dei motivi di ricorso rivolti contro la sentenza n. 417 del 1993 e fin'ora esaminati si rivelano fondati.

9. Si passa ora ad esaminare i ricorsi proposti contro la sentenza n. 162 del 1994.

Il ricorso n. 3687 del 1995 concerne la parte rescindente della sentenza.

Con esso i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 395 e 416 cod. proc. civ. e 2697 cod. civ., omessa e contraddittoria motivazione (art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ.). Essi negano che fosse, nella fattispecie concreta, ravvisabile il motivo di revocazione previsto nell'art. 395 cit., n. 4, poiché la detrazione dell'aliunde perceptum del credito retributivo spettante ai lavoratori - che nella sentenza revocata il Tribunale affermò erroneamente essere avvenuta - aveva costituito oggetto di controversia, con la conseguenza che esso era denunciabile, come in effetti fu, col ricorso per cassazione ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. e non già con l'impugnazione per revocazione ex art. 395, n. 4, cit..

Si trattò in definitiva, secondo i ricorrenti, di presupposizione di un fatto (la detrazione) errata perché fondata su un travisamento dei documenti, e non di mera svista materiale.

La sentenza impugnata sarebbe inoltre motivata in modo contraddittorio nella parte concernente la interpretazione del petitum dei lavoratori, ossia l'avere essi voluto o no la detta detrazione.

Il motivo non è fondato.

Il giudizio di revocazione per errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa è ammesso non già quando sia viziata la valutazione delle prove o delle allegazioni delle parti, ma quando la decisione sia frutto di una falsa percezione di ciò che emergeva dagli atti e non soltanto era incontroverso, ma neanche era controvertibile, e non poteva quindi dar luogo ad apprezzamenti di alcun genere. Tale errore deve pertanto avere il carattere di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive e tanto meno di particolari indagini ermeneutiche, e non è ravvisabile nella diversa ipotesi di errore costituente il frutto di un qualsiasi apprezzamento delle risultanze processuali (Cass. 2 giugno 1993 n. 6148; 20 aprile 1995 n. 4431, 8 luglio 1995 n. 7506).

Nel caso di specie il punto controverso, e quindi la questione risolta dal Tribunale con la sentenza poi revocata, era di diritto e concerneva la necessità di detrarre o meno certe somme nella determinazione quantitativa di alcuni crediti. Il punto di fatto, ossia l'essere o no già avvenuta la detrazione, non era controverso, essendo tutte le parti concordi sulla negativa.

Nondimeno il Tribunale, per una falsa percezione di ciò che sicuramente risultava dagli atti, affermò l'avvenuta detrazione, così incorrendo in un errore che esattamente ha dato luogo ad una pronuncia di revocazione.

Questa Corte ha già avuto modo di affermare come l'erroneo calcolo di una somma dovuta, imputabile a falsa presupposizione di un fatto, dia luogo ad errore revocatorio (Cass. 28 maggio 1981 n. 3514).

La doglianza di motivazione contraddittoria verrà considerata a proposito del ricorso successivo.

10. Il ricorso n. 3422 del 1995 concerne la parte rescissoria della sentenza n. 162 del 1994, ancorché i ricorrenti invochino formalmente l'art. 395, n. 4, cod. proc. civ. Essi sostengono infatti che la revocazione non avrebbe dovuto aver luogo giacché l'affermazione del Tribunale - erronea e perciò revocata - secondo cui in materia di aliunde perceptum era cessata la materia del contendere essendo stato il relativo importo già detratto dai crediti dei lavoratori, era in realtà ininfluente. Infatti, sempre ad avviso dei ricorrenti, la società datrice di lavoro - convenuta in giudizio era decaduta dalla relativa eccezione, come già rilevato dal Pretore, la cui affermazione non era stata neppure impugnata col ricorso in appello. Con la sentenza ora censurata in cassazione, n. 162 del 1994, il Tribunale non avrebbe potuto, perciò affermare la necessità di effettuare la suddetta detrazione dell'aliunde perceptum, ma semplicemente avrebbe dovuto rilevare che la convenuta, per non aver formulato la relativa eccezione nella comparsa di risposta in primo grado (art. 416, terzo comma, cod. proc. civ.), ne era decaduta e che sulla dichiarazione di decadenza, resa dal Pretore, si era formata la cosa giudicata. La doglianza non ha fondamento. Essa sottopone alla corte due questioni: a) se la necessità di detrarre dall'ammontare del credito dei lavoratori verso le Ferrovie dello Stato quanto da loro già percepito da altri datori di lavoro (cosiddetto aliunde perceptum) dovesse formare oggetto di eccezione da parte delle stesse Ferrovie, da sollevare nella comparsa di costituzione in giudizio, a pena di decadenza; b) se la dichiarazione di decadenza resa dal Pretore, che risolse in senso positivo la questione sub a), sia stata censurata dalla Ferrovie con l'atto d'appello.

La questione sub a deve essere risolta in senso negativo. A tale risoluzione conduce l'interpretazione degli atti introduttivi del giudizio, ossia dei ricorso al Pretore proposti dai lavoratori, senza che vi sia perciò bisogno di prendere posizione sulla questione, controversia in dottrina ed in giurisprudenza, circa la natura di eccezione in senso stretto o di mera difesa, dell'eccezione di aliunde perceptum.

I detti atti introduttivi contengono non già una pura richiesta di una somma corrispondente al compenso spettante, per le mansioni rispettivamente espletate, ai dipendenti delle Ferrovie, bensì recano una richiesta limitata alla "differenza" (questa è l'espressione testualmente adoperata nelle pagg. 8 e 9 del ricorso al Pretore del Baroncelli ed altri, e nel capo BB del ricorso della Lorenzi ed altri) tra quel compenso e quanto già percepito aliunde.

In tal senso gli atti sono stati interpretati, senza alcun errore di diritto né vizio di motivazione, dal Tribunale il quale, sia nella sentenza n. 417/1993 sia in quella n. 161/1994, ha ritenuto che corrispondesse alla volontà degli stessi attori, non occorrendo così alcuna eccezione in senso stretto del convenuto, la necessità di determinare il debito delle Ferrovie previa la detrazione più volte detta.

La decisione è esatta poiché non bisogna confondere in caso in cui, affermato un credito dell'attore, il convenuto contrapponga un fatto capace di diminuirne l'ammontare, con il caso in cui l'attore affermi solo l'esistenza del credito e ne chieda al giudice la determinazione quantitativa, previa sottrazione delle voci negative.

Nel primo caso, che si verifica ad es. nella compensatio lucri cum danno (art. 1223 cod. civ.) o nella compensazione dei crediti (artt. 2141 e 1242 cod. civ.), può porsi la questione se vi sia un onere di allegazione a carico della parte ovvero se il fatto limitativo possa essere rilevato dal giudice, mentre nel secondo caso è certamente rimessa all'iniziativa di quest'ultimo, sulla base delle prove proposte dalle parti (art. 115, primo comma, cod. proc. civ.) o ammesse d'ufficio (art. 421, secondo comma, cod. proc. civ.), la ricostruzione della più o meno complessa situazione patrimoniale costituente l'oggetto della pretesa, in modo tale che l'accoglimento di questa non si risolva in un indebito arricchimento dell'attore (vedi Cass. 25 ottobre 1965 n. 2248; 16 giugno 1987 n. 5287). Più precisamente, in questo secondo caso il giudice deve procedere esclusivamente all'accertamento contabile delle rispettive poste di dare e avere, anche non dedotte dal convenuto con la memoria difensiva di cui all'art. 46 cit., atteso che esso concernono non autonome pretese traducibili in domande riconvenzionali né eccezioni in senso stretto bensì argomentazioni difensive che ben possono essere illustrate nel momento in cui nel processo concretamente si pone il problema della determinazione del quantum (Cass. 30 maggio 1983 n. 3732).

Manifestamente priva di consistenza è la tesi, sostenuta dai ricorrenti in memoria, secondo cui la questione dell'aliunde perceptum può porsi solo nei confronti dei lavoratori illegittimamente licenziati e reintegrati ex art. 18 L. n. 300 del 1970 (cosiddetto statuto dei lavoratori), ma non anche nel caso di intermediazione di prestazioni di lavoro. In realtà in entrambi i casi si tratta di fare in modo che i lavoratori ottengano la retribuzione dovuta, per prestazioni rese o illegittimamente impedite, ma anche di evitare il loro arricchimento senza titolo.

Anche la questione sub b va risolta in senso negativo. Non è vero che l'affermazione di decadenza, contenuta nella sentenza pretorile ed errata per quanto si è ora detto, non sia stata impugnata: al contrario, a pag. 23 del ricorso in appello proposto dalle Ferrovie si legge: "l'eccezione (di aliunde perceptum) non è tardiva per il semplice fatto che è piuttosto la domanda (scilicet dei lavoratori) che non c'era stata".

In conclusione anche il ricorso n. 3422 del 1995 dev'essere rigettato.

11. Con i ricorsi nn. 5290 e 5291 del 1995, incidentali e di egual contenuto, la S.p.a. Ferrovie dello Stato prospetta in un unico motivo, deducendo la violazione dell'art. 395 cod. proc. civ. e motivazione contraddittoria, ma sostanzialmente riprendendo il contenuto del secondo motivo del ricorso n. 1029 del 1994, sopra esaminato, e sostenendo, con riferimento alla parte rescissoria della sentenza n. 161 del 1994, che i rapporti di lavoro in questione si erano estinti non oltre il 31 marzo 1989, ossia quando la società appaltatrice aveva intimato i licenziamenti, mai impugnati.

La non fondatezza del ricorso risulta da quanto già detto a proposito del ricorso n. 1029/1994, a cui è qui sufficiente far rinvio (retro, part. 6).

In conclusione nessuno dei ricorsi merita accoglimento. La complessità delle questioni induce all'integrale compensazione delle spese.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi nn. 1029 e 2794 del 1994, 3422, 3687, 5290 e 5291 del 1995, li rigetta tutti e compensa le spese.

Così deciso in Roma il 12 dicembre 1995.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 21 MARZO 1997